Passeggiando nella cittadina di

Silmaril
I Racconti

Da Tarindor

di
Eldalith


Dalla finestra rotonda della mia stanza posso vedere un brandello di verde della foresta, mentre la luce del sole calante batte dorata sui cristalli colorati che ho appeso al soffitto, spezzandosi in mille sfumature evanescenti sulle pareti e sul pavimento. Così simile al mio cuore, dove mille emozioni si scontrano in una furiosa battaglia, lasciando la mia anima spossata e stranamente vuota.
Dalla finestra rotonda della mia stanza posso vedere un brandello di verde della foresta di Tarindor, la mia terra natale, e sentire ancora miei i freschi e odorosi boschi della mia infanzia, tra gli elfi della famiglia di mia madre.
Da Midgaard, ormai esperta in arti magiche, ho aperto una porta dimensionale e mi sono trasportata qui, nella quiete dei miei laghi immoti e dei miei boschi silenziosi, dove ogni luogo risuona ancora dei canti di mia madre, che fu un'elfa dolce e generosa. Qui, dove ogni luogo risuona ancora dei canti di mia madre, e dove sono tentata di restare per sempre...
Fuggita da Midgaard in preda alla disperazione, mi sono rifugiata in questo luogo, sperando che la terra della mia infanzia e la dolce compagnia di mio nonno e della mia famiglia possano lenire le mie ferite... a meditare sulla leggerezza con cui, appena diciassettenne, lasciai questi boschi, a meditare sulla mia forse ancora sconosciuta essenza in cui, come in uno strano composto che un alchimista abbia messo a decantare nell'athanor, la mia metà elfa e la mia metà umana ancora non hanno raggiunto l'equilibrio...
Eppure entrambe fanno parte di me, ed io, come posso non essere ciò che sono? Entrambe sono fonte di gioia, entrambe di sofferenza, ma non rinnego nulla di ciò che ho ereditato dai miei genitori, né nel bene né nel male... Il mio lato umano a volte mi porta a comportarmi fino all'eccesso in compagnia degli amici, mi rende passionale, impulsiva, fiera, ribelle, ma anche generosa nell'aiutare chi si trova in difficoltà e, soprattutto, assetata di conoscenza... Il mio lato elfico mi rende ipersensibile, forse fragile, mi fa amare la musica e la poesia, mi porta a sentire il desiderio di essere utile agli altri come un imperativo quasi doloroso, e a commuovermi fino alle lacrime alla vista di un tramonto, o al gesto tenero di un amico, o al suono di un canto...
Amo entrambe le mie anime, entrambe mi fanno soffrire... però non le rinnego, sia che si sorridano sia che lottino fra loro... ma ora sono confusa, tormentata, e ho bisogno di riposo, ho bisogno di mettere in ordine i miei pensieri e miei ricordi, per comprendere meglio quale sia il mio destino...
E qui, nella quiete dei miei laghi immoti e dei miei boschi silenziosi dove ogni luogo risuona ancora dei canti di mia madre, ripenso a lei... mia madre: la rivedo ancora seduta davanti a me, una corona di fiori tra i capelli chiari, sulle labbra un sorriso abbozzato ma negli occhi tanta tristezza... e il mio cuore si gonfia di tenerezza e di dolore...
Mia madre, un'elfa della gloriosa stirpe dei Sindar, conosciuti anche come Elfi Grigi, apparteneva ad un gruppo stanziato sull'altipiano del Dorthonion, interamente ricoperto da grandi foreste di conifere e costellato di laghi, in un villaggio chiamato Tarindor, "terre alte". I Sindar sono conosciuti per essere i più versati nella musica ed avere le voci più belle tra gli Elfi, e mia madre, Mellin - il cui nome significa "colei che ama cantare" - possedeva una voce bellissima, talmente celestiale che quando cantava qualsiasi essere nelle vicinanze doveva smetteva quello che stava facendo per ascoltarla incantato, tanto che si dice che anche gli uccelli della foresta si zittissero al suono della sua voce. Mio nonno, suo padre (ma anche altri abitanti di Tarindor me lo raccontavano), mi raccontava spesso di quella volta che, trovandosi un gruppo di elfi tra cui lui e mia madre nella foresta a raccogliere erbe medicinali, alzando il capo al rumore di passi sgraziati, si trovarono di fronte ad un orchetto il cui sguardo malvagio non lasciava presagire nulla di buono. L'orrenda creatura doveva essersi persa perché per fortuna quella zona era libera dalla loro presenza. Mia madre, che già mi ospitava nel suo ventre, era la più vicina a lui, e stava cantando: per un istante le si spezzò appena la voce ma, sostenendo lo sguardo del povero essere, subito riprese a cantare, mentre i maschi del gruppo già mettevano mano alle armi. L'orchetto fissò i suoi rossi occhi infossati in quelli verdi e limpidi di mia madre e aprì le zanne in un sorriso malvagio. Mia madre coraggiosamente continuava a cantare, perché in un attimo tutta la sua paura si era trasformata in compassione per quella creatura nelle cui vene scorreva, seppur malato e corrotto, antico sangue elfico. Continuava a cantare e a sorridere con dolcezza al mostro che aveva davanti, e questo durò interminabili minuti, o così parve a coloro che erano lì, finchè sulla bocca dell'orchetto sembrò comparire una smorfia deforme, eppure simile ad un tristissimo sorriso. Prese con rudezza la mano di mia madre, che aveva interrotto il suo canto ma continuava a guardarlo senza timore, e la baciò, lasciandole tracce di bava sulla pelle. Quindi si girò e fuggì via. Questo mi raccontava spesso mio nonno, e questa era mia madre. Ecco perché io riesco a vedere in qualsiasi essere, anche il più malvagio, una possibilità di redenzione.
Mellin era una guaritrice e per curare impiegava erbe e fiori, ma anche l'arte del suo tocco e della sua voce. Curava soprattutto nani e umani, più fragili, e molti di loro venivano dalle pianure per farsi guarire da lei e da alcuni altri elfi di Tarindor esperti in quest'arte. La convivenza fra queste razze era imperniata sul dialogo e la fiducia reciproca, ma ad onor del vero da parte degli elfi c'era una certa diffidenza verso le tribù umane che occupavano le zone più lontane verso la costa, perché si diceva che fossero abbattitori di alberi e cacciatori di bestie. Un giorno portarono un uomo ferito, di cui nessuno conosceva il nome. Alcuni umani lo avevano trovato e trasportato con molta fatica fino a Tarindor. Le sue ferite apparvero subito non gravi, eppure egli restava incosciente. Poteva avere sui 35-40 anni, ma i suoi capelli neri e la sua barba cominciavano già ad essere spruzzati di grigio. Le cicatrici sul corpo e sul viso facevano intendere che fosse un guerriero, anche se la conformazione delle sue ferite appariva strana. Venne affidato alle cure di mia madre. Dopo alcuni giorni le condizioni dell'uomo migliorarono ed egli riprese coscienza, ma dalla sua bocca non usciva alcun suono e i suoi occhi restavano spenti. Mellin comprese che il male non si annidava tanto nel suo fisico quanto nel suo spirito e gli restò vicino con dolcezza ma anche con discrezione, mentre nel suo cuore sentiva lentamente nascere un interesse non solo professionale verso di lui. Un giorno, mentre gli medicava le ferite comunque ormai guarite, iniziò a cantare sottovoce. Era un canto dolce e malinconico, e la sua voce pure se sussurrata dovette evocare nell'uomo qualcosa di molto doloroso dai recessi più nascosti della sua anima, perché quando ella, finita la medicazione, alzò improvvisamente lo sguardo verso di lui, vide che egli la guardava e che dai suoi occhi ora tormentati scorrevano lacrime. Fu così che mio padre e mia madre cominciarono ad amarsi. Col tempo lui le raccontò di chiamarsi Brandir e di venire da una terra molto lontana. Era un guerriero e conosceva anche un poco di magia, e mia madre gli insegnò molte cose. E poiché egli apprendeva molto velocemente ed anzi appariva assetato di conoscenza, gli elfi di Tarindor cominciarono a chiamarlo Featir, "spirito vigile". Questo nome rappresentava anche un augurio, quello che lui usasse ciò che imparava nel modo migliore. Essi si innamorarono perdutamente e vivevano felici, eppure egli mai le aveva raccontato cosa gli fosse successo quando lo avevano trasportato ferito a Tarindor. Mellin non gli chiedeva nulla perché pensava che Featir dovesse farlo quando avesse sentito fosse giunto il momento, ma in cuor suo sperava che succedesse presto, così l'anima di lui si sarebbe alleggerita. E in una sera come questa, nell'ora in cui le ombre si allungano, mentre i contorni delle cose acquistano una nitidezza che non possiedono in nessun altro momento del giorno e il tempo sembra fermarsi in un eterno presente, egli finalmente le aprì il suo cuore. Le raccontò piangendo di come la sua frenetica sete di conoscenza l'avesse portato ad indagare nell'antro oscuro e pericoloso di un potente mago nero, in compagnia del suo più caro amico, che egli aveva convinto a seguirlo nell'avventura. Di come l'amico, più caro di un fratello, avesse trovato la morte, orrendamente torturato dal malvagio mago, sotto i suoi stessi occhi, senza che egli potesse fare nulla per salvarlo. E di come era riuscito a fuggire, seppur ferito a sua volta. Non riusciva a perdonarsi la morte dell'amico, eppure era tormentato perché la sua brama di sapere non si era acquietata per questo, e ne provava vergogna. Ben presto infatti, pur amando immensamente mia madre, mio padre cominciò a sentire impellente il desiderio di esplorare, conoscere, imparare... e se ne andò, pur con la promessa che sarebbe tornato. Rimase lontano da Tarindor qualche mese, ma mantenne la promessa: tornò, sposò mia madre, e dopo poco nacqui io. Dopo un consulto con il saggio del villaggio, mi venne dato il nome di Eldalith, "cenere di stelle". Ma qualche mese dopo la mia nascita Featir se ne andò di nuovo, tanta era la sua sete di conoscenza, e infine ritornò quando compii due anni. E così fu per anni, egli se ne andava per lunghi periodi, per tornare da noi e poi ripartire di nuovo, mentre io crescevo amando in egual misura i miei genitori, nonostante vedessi mia madre sempre più triste. Ella cantava ancora ma ora i suoi canti erano spesso struggenti, e mi trapassavano il cuore. Mi tormentavo immensamente nel vederla soffrire ma non riuscivo ad odiare mio padre, né lei lo avrebbe voluto. Anzi lo comprendevo, perché mano a mano che crescevo potevo riconoscere in me il suo stesso desiderio di conoscere. E anche lei lo vedeva in me. Ma vedeva in me anche la sua eredità, e forse questo la faceva soffrire ancora di più, perché penso presagisse che da adulta mi sarei sentita spesso divisa, lacerata fra queste due anime, quella elfica e quella umana, così diverse fra loro eppure per forza di cose riunite in un'unica forte e fragile creatura. Così passarono gli anni e quando ne compii quindici Featir non tornò più: ci giunse invece la notizia che era perito durante una pericolosa missione insieme ad alcuni compagni, ma non potemmo mai vedere il suo corpo né avere una prova tangibile della sua morte. E poiché gli elfi sono immortali ma passano ad un'altra dimensione se vengono uccisi o si struggono di dolore, mia madre semplicemente se ne andò a risiedere presso le Aule di Mandos a Valinor, da cui io spero sempre possa un giorno tornare... Ed io, che già mordevo il freno come mio padre, dovetti attendere il compimento dei diciassette anni prima che mio nonno mi desse il permesso di venire a Midgaard ad istruirmi alla Scuola di Magia. Il resto della mia storia la conoscete.
Ed ora sono qui, dove ogni luogo risuona ancora dei canti di mia madre, e dove sono tentata di restare per sempre... anche se penso spesso con struggente malinconia agli amici fedeli che ho lasciato in quella terra e all'impegno che vi ho preso di lavorare per portare ovunque pace e ordine. Dalla finestra rotonda della mia stanza posso vedere un ritaglio di verde della foresta, mentre la luce del sole che sta scendendo sotto l'orizzonte batte dorata sui cristalli colorati appesi al soffitto, frangendosi in mille incorporee sfumature sulle pareti e sul pavimento. Così simile al mio cuore, dove mille emozioni turbinano come in tempesta, lasciando la mia anima spossata e stranamente disabitata.
Ma poi giungono al mio orecchio le grida dei bambini che si rincorrono giocando nelle luci della sera. Esco e resto qualche secondo sulla porta di casa, il gigantesco albero che ospita generosamente la mia famiglia da un tempo infinito, appoggio una mano sul suo antichissimo tronco e lo sento ancora tiepido di sole. Lontano qualcuno sta cantando, mentre qualcun altro accompagna la voce con il suono di un flauto. Un profumo acre sale dalla terra e dall'erba e va lentamente mescolandosi con quello delle cucine.
Ed io - ora ne sono sicura - non rinnego me stessa, né lo farò mai.








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