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Keremath di Caraqui il "Metropolita"
Sono seduto qui al C’era una Volta, e forse sarà la birra, sarà che ho
appena ucciso il Grell, ma ho voglia di raccontare la mia storia, accanto a me c'è
un'amica, Moah, che l’ascolterà.
Era il tempo del raccolto e ancora una volta, accompagnato dai miei fratelli, seguivo la
strada del tempio per assistere alla cerimonia che avrebbe garantito alla mia famiglia un
altro anno di regno.
Lì i sacerdoti di Caraqui avevano fatto allestire da un tempo di cui s’era perso
la memoria un gran calderone, il cui solo scopo era di servire a cuocervi la speciale
mistura che permetteva alla mia famiglia di esercitare il potere assoluto sulle nostre
terre.
Guardavo i nostri sudditi inginocchiati ai lati della strada con la testa china al nostro
passaggio convinto che dovessero essere lieti se gli permettevamo di vivere per servirci.
Era anche un tempo speciale.
Era il tempo del raccolto e noi ci accingevamo a ucciderli tutti.
Io, Keremath, essendo il più piccolo di 7 fratelli sarei stato battezzato Metropolita,
col compito di divenire a mia volta sacerdote e suonare una volta al giorno il Grande Limite,
un gong enorme che richiamava i nostri servi per mandarli al lavoro e che, suonato un'altra
volta, li mandava a nascondersi, affinché non offendessero con la loro vista la mia
famiglia e i suoi ospiti.
Sentivo lo sguardo dei servi sulle spalle ed ero sicuro che fosse carico d’invidia e di
rispetto.
Come mi sbagliavo.
Giunti che fummo nella grande sala cerimoniale fui invitato al suo centro da... non ne ricordo
più il nome. Ma lui era il Gran Sacerdote di Caraqui, quello che da migliaia di anni
serviva lealmente e fedelmente la mia famiglia...
Come mi sbagliavo.
Venni sollevato da un soffice tappeto d’aria fino a trovarmi al centro esatto della sala
mentre un violento temporale si scatenava d’improvviso all’esterno. Ad uno ad uno i nostri
servi sciamavano verso la campagna incuranti della pioggia e del vento per catturare tutti
quelli che non avevano impresso il sigillo del consiglio e portarli al tempio, dove sarebbero
stati gettati a bollire nel calderone sacro. E lì sarebbero rimasti il tempo necessario
perché la loro carne e le loro ossa non fossero diventati un'unica brodaglia da cui
poi Da’llh’aar, sì, ora ricordo, questo era il suo nome, avrebbe impastato i servi
che avrebbero sostituito i vecchi che stavano ormai per disfarsi, e che sarebbero durati
un anno esatto, fino al raccolto successivo.
In quell’anno nuove terre sarebbero state conquistate, nuovi schiavi messi al lavoro nei
campi, nuovo potere e nuova ricchezza guadagnati dalla mia famiglia.
Io Keremath sentivo crescere in me la forza del temporale e vedevo sulle mie mani le
sette stelle del sigillo accendersi e brillare irradiando raggi luminosi in tutte le
direzioni. Raggi che giunti sulle pareti della sala rimbalzavano verso me, immergendomi in
una bolla di luce e di colori al punto di nascondermi alla vista di chi mi era intorno.
Non mi accorsi di nulla, la luce scomparve e io mi ritrovai solo al cospetto di Da’llh’aar
in un enorme spazio vuoto. Da’llh’aar mi osservava e il suo sguardo era così carico
di disprezzo che mi sentii ferito come se cento, mille lance mi avessero trafitto.
E mi parlò.
Mi parlò con parole oscene e blasfeme. Mi parlò delle origini del nostro
casato e di come fossimo noi i servi e lui il padrone. Mi parlò e mi toccò
come nesun servo dovrebbe toccare il suo padrone. Mi picchiò, derise, umiliò.
E, sopra ogni altra cosa, rideva.
Quella risata che mai orecchio umano dovrebbe udire spense la mia volontà
più del dolore, più delle visioni.
Riaprii gli occhi ed ero lì, sullo scranno che permetteva al Metropolita di
giungere all’altezza giusta per colpire il grande limite al suo centro esatto.
Un cenno di Da’llh’aar e sollevai il martello d’oro con cui avrei dato inizio alla parte
finale della cerimonia, quella che per un altro anno ci avrebbe garantito potere e
ricchezza, privo di ogni volontà avrei battuto il grande limite, non dissimile da
quelli che fino ad allora avevo considerato miei servi.
Ma quello non era un anno come gli altri.
Battei con tutta la forza consentitami dai miei dodici anni ma nessun suono udibile ad
orecchio umano si propagò da quel gesto.
Ora il temporale era cessato e tutto era silenzio. Attendevamo il ritorno dei servi con
quelli che avrebbero composto i servi del successivo anno.
Ed essi vennero.
Vennero con le falci e con le zappe, vennero coi forconi e con le vanghe, vennero.
Ma essi vennero senza i nostri servi, vennero senza paura, senza pudore, sporchi,
laceri, insanguinati, spinti da una forza più grande di loro, vennero ed
erano lì per noi.
Quando mi risvegliai la grande sala cerimoniale era completamente ricoperta di sangue, i
resti della mia famiglia e dei nostri cortigiani sparsi dappertutto, fatti a pezzi, morti.
Fu allora che Da’llh’aar mi si avvicinò.
Non disse nulla ma i suoi occhi tradivano una gioia infinita, mi aiutò a
rialzarmi, mi accompagnò al grande limite e fissandomi dritto negli occhi, privandomi
così di ogni residua volontà, mi disse...
SUONA.
Avrei voluto chiedere per chi, se il mio casato era distrutto, avrei voluto chiedere
perché, se non vi era più nessuno che i servi avrebbero potuto servire,
mi chiesi perché ma non lo chiesi ad altri.
E suonai... ma non una, cento volte.
Fu come risvegliare di colpo un vecchio drago addormentato, un ruggito venne a far tremare
la terra ed un tremendo boato squarciò il cielo. Forze imprigionate da millenni
furono liberate e si scagliarono con rinnovata ferocia su Caraqui, radendola al suolo e
rendendola un immensa palude putrida e maleodorante.
Io ero il Metropolita.
Io battevo il Grande Limite.
Io solo mi salvai.
Da’llh’aar era raggiante gioia e soddisfazione. Il suo regno era nato e nulla poteva
più portarglielo via.
Mi guardò e fu come se nessuno mi avesse guardato prima. Un gesto e non ero più
lì.
Sarei vissuto. Sarei vissuto e ogni giorno avrei pagato col rimorso la mia cecità,
la mia paura. Ma sarei vissuto.
La carovana di zingari che mi raccolse era guidata da un uomo chiamato Abdul, mi tennero con
loro quattro anni in cui crebbi forte e coraggioso, nulla mi faceva paura, poiché
avevo incontrato la morte ed essa mi aveva rifiutato.
Ma la mia pelle più chiara, gli occhi più tondi mi rendevano diverso, troppo
diverso affinché potessi rimanere a lungo con loro.
Il giorno del mio diciassettesimo compleanno Abdul mi diede una lettera di raccomandazione
e mi accompagnò in una città vicina, Midgaard. Lì mi lasciò nella
scuola principale e mi riconsegnò al mio destino.
Completai gli studi e presi il mio diploma, ma ancora non sapevo che fare, dove andare, quando
incontrai un tipo strano con la risata più assurda che avessi mai udito prima.
Costui era Phebos e condottomi all’armeria di Midgaard mi donò la mia prima spada,
indicandomi così, inconsapevolmente, quale sarebbe stato il mio cammino.
Da allora molto tempo è passato e tante battaglie combattute e vinte. Dal misero
reietto rifiutato anche dagli zingari sono diventato Generale dell’Armata della Sacra Spada.
Ma ancora oggi continuo a ricordare chi ero, chi sono.
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